Sono in stazione, qui fermo sulla banchina. Le persone intorno attendono, come me, il treno in arrivo, ancora qualche minuto; le facce protese nella stessa direzione, io guardo la banchina di fronte dove c’è l’amico con cui sono venuto a piedi in stazione, ironia della sorte ha anche lui un treno nell’identico orario. Ecco, il mio treno è in ritardo, il mio amico parte, tutti noi qui attendiamo. Sei minuti, percorro il marciapiede, trovo il vagone, salgo, vado fino al mio posto che non è il mio ma quello a fianco, al mio posto un bambino gioca con una macchinina in miniatura, nessun gioco elettronico. Lieve sorpresa, la prima. Sistemo il bagaglio, poi me stesso. Il bambino adesso non gioca, è fra le braccia della madre, ride, lei lo accarezza scherzosa sorride e canta. Canta le canzoncine dei cartoni animati, almeno io credo. Va avanti per un po’, questa rappresentazione del teatro della vita, questo dolce attimo autentico. Va avanti per tutto il viaggio, il loro. Di fianco alla madre e al bimbo, c’è il compagno marito padre con un altro bimbo, pure lui continua a giocare a parlare, con fare più dimesso, timido forse, meno sfacciato certamente. Perché un uomo, benché padre, conserva sempre un certo contegno, che nulla toglie al momento in cui culla il proprio figlio. Vado indietro, indietro nel tempo, ad una famiglia mai vista, immagino di ritrovarmi negli anni delle migrazioni, una famigliola che scende in treno a trovar la famiglia dal lavoro su al nord. Per un incantesimo di coincidenza su una macchinina c’è scritto Milano, ed io immagino vengano da lì. Lui operaio, ma forse fa il meccanico o chissà, lei massaia, o casalinga qual dir si voglia. Lui lavoratore in qualche officina, baffi e capelli di quegli anni ottanta, anche nei vestiti insegue una moda passata, o non ne segue alcuna. Ora il bimbo è steso sulla poltrona al mio fianco, la madre gioca con lui ancora, instancabile come solo una madre può esserlo. Indossano entrambi una tuta, è meglio vestito il bimbo. Fuori il paesaggio corre, lo guardo dal finestrino, ma di sfuggita perché oggi sono ammirato dal paesaggio dentro lo scomparto. Chiedo da dove vengano, da Genova per un concorso. La madre moglie è arrivata terza su mille, è andata bene, anche se non ha vinto. Terza e non ha vinto, ma è andata bene, lo vedo negli sguardi fra lei e il padre che è marito come lei è moglie. Sguardi innamorati come se ne vedono pochi, così scoperti al mondo. Tornano a casa, a Roma, anzi, in provincia, ma l’accento è quello. Lei lo chiama papà, con tono gentile. Debbono prepararsi per discendere, preparano i figli, bellissimi d’aspetto ma sopratutto di modi. Gli auguro “buon viaggio, per quello che è la vita, tenetevela stretta questa scintilla”, la terranno viva è la risposta che suona più come una decisa promessa. Salgono altri passeggeri, un ragazzo e una ragazza forse fidanzati, una coppia di amiche, o forse il contrario, comunque adesso c’è silenzio o mormorio, nessuno ha voglia di condividere un po’ del suo viaggio. Io chiudo gli occhi perché in fondo è come se fossi già arrivato. Come se fossi sceso con quella famigliola.
(Quello che può insegnare un viaggio?, neanche un buon libro o il migliore maestro.)
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