Sono qui, su questa barella del pronto soccorso, fermo in corsia. Una vecchia sorride, gli ultimi visitatori vanno via, io resto solo, nessuno della mia famiglia è venuto. Fermo, immobile, perché ho avuto un incidente d’auto. Ho una flebo attaccata, quasi vuota, chiamo un infermiere per farla togliere, ha gli occhi arrossati, l’espressione spenta, sfila l’ago dal braccio, sento la punta uscire dalla mia pelle, guardo il buco sul braccio, non c’è cerotto. Inizio a parlare rivolto al soffitto. È imminente la notte. La prima notte, impressione di calma, nessun rumore o sirena, come se l’ospedale chiudesse, l’ultimo crepuscolo entra adagio dalle finestre, da qualche minuto la temperatura sembra più bassa. Le porte delle camere chiuse, nessuno esce, neanche gli ammalati. Neanche per una sigaretta. Ho la fasciatura sporca di sangue, tre piccole macchie, sono frastornato dai sonniferi, spero di riuscire a dormire.Da due ore la luce del lampione macchia la parete di fronte, adiacente a l’ufficio accettazione. Scorgo il bancone vuoto, il vicino mobile d’acciaio risplende, distinguo i nomi dei medicinali sui flaconi e un cuore in un barattolo. Sento il chiudersi di una porta. Lo sguardo punta la macchinetta del caffè in funzione, il rumore è flebile, trema il respiro. Dilata lo spazio, ogni cosa si curva, la sedia a rotelle dondola in balia della musica, una nenia dolce e triste. Il buio ha preso il sopravvento, distinguo le insegne delle uscite di sicurezza. Pochi attimi o minuti, la porta dell’ascensore si sposta, le mura sgretolano e diventano nulla. Rivedo i miei compagni d’infanzia: quegli occhi di fiamma. Il corridoio diviene senza fine. Il respiro è vertigine. Lo sguardo inchiodato al vano porta di fronte, più vicino, nero, nessuna maniglia. Sento freddo. C’è un intenso odore di fresie. Tengo gli occhi serrati, è gelido il respiro sul viso. Ascolto un pianto, strani bisbigli, delle risa. Sento molta pena. Il dolore è acuto, piano scendo dal letto…
(Ognuno di noi ha una causa persa…!)
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