Così se ne andò in mezzo alla neve, se ne andò in mezzo al fango. Finché non arrivò in un posto chiamato “Il Secchio di Sangue”. Aveva attraversato due continenti. Davanti si ritrovò la città tetra, le mura dei palazzi, scuri, si confondevano con le ombre delle prostitute ad ogni angolo di strada. Laceri fogli di carta svolazzanti, pezzi di vecchi cartelloni pubblicitari. Camminava scalzo, i piedi insanguinati e sporchi, il pantalone macchiato di fango. La pioggia cadeva fine oltre i colonnati. Vide la statua di un re, per metà sbriciolata dalla passata guerra, dentro la fontana con dentro pesci morti, decomposti, e muschio. Nel locale molte persone giocavano a carte, tavoli e sedie di ferro arrugginito, gli ubriaconi stavano al bancone di legno d’acero seduti su sgabelli o in piedi. Nessuno lo degnò di uno sguardo. Andò al bancone per un rum, pagò versando poche briciole d’oro. L’odore rancido della sua carne si sparse mentre andava via. Fuori c’era un lampione acceso, l’unico in tutta la strada. Una folata di vento gli riversò addosso le grida di una donna e il pianto di un bambino. Scelse di ascoltare il canto di una nenia, flebile voce d’uomo. Attraversò il vicolo fra il bar e il palazzo del sindaco, era lercio. A terra vestiti, un paio di scarpe di pelle rossa, riviste e giornali logori, i resti di qualche animale. Aveva delle scarpe adesso, allargate dall’uso vestivano perfettamente i suoi piedi. Cinque anni, cinque anni d’assenza, il mondo era capovolto, era un altro, aveva viaggiato tanto, troppo. Quella era la sua città, una delle sue città. Con passo sicuro andava verso casa, attraversava la piccola piazza come prima i due continenti, come quei cinque anni. Cominciò a ricordare, sempre accadeva quando arrivava a casa. Eccola lì in fondo alla strada. Conteggiava il parco vuoto adesso, prima sempre pieno di coppie in tenere effusioni a quell’ora. Ma era un’altra città, cinque anni prima. Ricordò di quanto aveva studiato per lavorare in quell’istituto, i suoi colleghi erano cordiali e gentili. Si lavorava sodo tutti i giorni, sembravano sull’orlo di un risultato quando un incidente spazzò via il laboratorio, i suoi colleghi, la città vicina. Da allora ripercorreva gli stessi passi, gli stessi posti, ad ogni risveglio. Per questo aveva impiegato sei mesi, sei mesi di devastazione pericoli e morte. Era quasi arrivato a casa sua, come tante altre volte aveva giusto il tempo di far l’amore con sua moglie e la mattina dopo ricominciava, sveglio dall’altro lato di un altro mondo. In uno aveva dei figli, da lì non avrebbe voluto andare via, sua moglie aveva gli stessi modi, le stesse premure. Eppure si addormentò. Erano passati cinque anni e si ritrovava ancora nel ’32.
(Incipit dalla canzone Stagger Lee di Nick Cave)
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